Peti sul posto di lavoro, possono diventare un’arma di mobbing: ecco la curiosa denuncia e cosa dice la legge a riguardo

Peti sul posto di lavoro, possono diventare un’arma di mobbing: ecco la curiosa denuncia e cosa dice la legge a riguardo

Pubblicato il: 08/11/2024

Insulti, umiliazioni, isolamento in ufficio o negazione di permessi sono soltanto alcuni esempi di mobbing sul posto di lavoro, intendendosi con esso una forma di vessazione psicologica caratterizzata da comportamenti ostili e sistematici, che un dipendente subisce da parte di colleghi e superiori.
Ebbene, tra le più singolari accuse di persecuzione sul lavoro, negli ultimi anni ha destato curiosità quella di una giornalista Rai, che – contro i suoi superiori – aveva fatto denuncia di stalking e mobbing alla Procura della Repubblica di Roma. La donna infatti era convinta di aver “pagato” alcuni attriti professionali, con il demansionamento e lo spostamento in una stanza con un collega avente.. problemi di flatulenza causati da insopprimibili anomalie intestinali. Il procedimento è stato recentemente archiviato, ma invita comunque a riflettere sulle possibili manifestazioni insolite del mobbing.
Può la flatulenza, detta altresì “peto” in maniera più colloquiale, costituire una sorta di strumento per esercitare pressione psicologica e ingenerare una situazione di disagio nel dipendente “mobbizzato”, quasi a volerlo spingere alle dimissioni? In linea generale, vero è che l'utilizzo del disagio fisico e psicologico come forma di punizione, vendetta o ritorsione, può spingere la vittima a una azione legale.
Al di là di facili ironie, il disturbo da flatulenza cronica è un inconveniente contro il quale negli ambienti di lavoro andrebbero privilegiati contegno e discrezione. Ma il problema potenzialmente può essere usato contro la persona che ne soffre o contro un altro dipendente, integrando gli estremi del mobbing. Lo evidenzia il caso sopra citato: la flatulenza cronica è astrattamente configurabile anche come mezzo psicologico di subdola oppressione e violenza psicologica, in una sorta di “mobbing olfattivo” caratterizzato dalla volontà di relegare la vittima in un ufficio con una persona che produce – non in modo intenzionale – odori sgradevoli.
Quindi è pur vero che è possibile ipotizzare condotte persecutorie sul luogo di lavoro, attuate tramite un difetto fisiologico a cui – in superficie – si potrebbe attribuire un connotato “scherzoso” o “leggero”, ma che nei fatti potrebbe assumere contorni ben più invasivi e lesivi dell'autostima, della motivazione e della produttività del lavoratore bersagliato. In sintesi, il mobbing olfattivo rappresenta anch'esso una possibile espressione di atti persecutori, sebbene fornirne la prova (ad es. testimonianza di un collega) in una eventuale disputa giudiziaria, potrebbe risultare arduo.
Nel caso della giornalista Rai sopra citato, la denuncia non ha portato a conseguenze penali. Infatti il gup di Roma ha scelto di prosciogliere gli accusati, stabilendo il "non luogo a procedere" e che "il fatto non sussiste". In particolare, i certificati di salute – presentati dalla giornalista e relativi a un asserito disturbo dell'adattamento persistente con sintomi ansiosi e a una patologia cardiologica caratterizzata da fibrillazione – non sarebbero dipesi dal comportamento dei colleghi.

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